Eravamo LGI: Michael Fabbro

Inserito 5 volte in almanacco quando giocava nelle giovanili del Milan, oggi è uno dei protagonisti della riscossa della Virtus Verona
01.01.2023 12:00 di  Luca Pellegrini   vedi letture
© Instagram/michaelfabbro
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Quando si è unito alla squadra, la stagione era già cominciata. In questi casi, solitamente, c’è bisogno di un periodo di adattamento alla nuova realtà e l’inserimento procede per gradi. Non per Michael Fabbro, che è stato annunciato dalla Virtus Verona il 18 ottobre, ha fatto il suo esordio in campionato (a gara in corso) il 19 e si è conquistato la prima maglia da titolare il 23. Sorprendente? In realtà no. Perché l’attaccante cresciuto nel vivaio del Milan, con alle spalle più di 50 presenze in Serie B tra Pisa e Chievo, nonché diverse apparizioni con le selezioni giovanili dell’Italia, ha sempre affrontato ogni sfida nello stesso modo: prendendola subito di petto, con passione, grinta e determinazione, distinguendosi ovunque per voglia di mettersi in gioco, spirito di sacrificio e attaccamento alla maglia. Qualità che, insieme alla schiettezza e ad un carattere deciso, affondano le proprie radici – come lui stesso ci tiene orgogliosamente a sottolineare – nella sua terra d’origine: il Friuli, che l’ha forgiato in campo e fuori e che ne ha lanciato la carriera.

Ciao Michael e grazie mille per la disponibilità. La tua carriera comincia prestissimo nella Savorgnanese (società di un piccolo paese del Friuli), ma il calcio non era l’unico sport che praticavi. In parallelo, infatti, giocavi a tennis. È vero?

“Diciamo di sì. Il calcio è sempre stato la mia passione più grande, però da piccolo mi piaceva un sacco andare a giocare a tennis con mio padre. Lui di fatto è stato il mio primo allenatore a calcio – perché oltre a insegnarmi a giocare come fanno praticamente tutti i papà con i figli, allenava proprio la squadra della Savorgnanese dove ho cominciato – ma anche a tennis”.

Alla fine il calcio ha prevalso: hai abbandonato la racchetta e dalla Savorgnanese sei passato alla Donatello, una società dilettantistica friulana dalla grande tradizione. Superato il dubbio sulla disciplina, però, ne è subentrato un altro: quello relativo al ruolo. Ora giochi in attacco, ma non è sempre stato così, giusto?

“Esatto. Io volevo giocare in avanti, ma alla Donatello incontrai Paolo Miano (storico ex calciatore dell’Udinese, che ha avuto anche l’opportunità di militare un anno nel Napoli di Maradona) che non era della stessa idea. Sotto porta, infatti, non ero un granché, ma avevo grinta e temperamento; decise quindi di provarmi da difensore centrale e furono subito faville [ride]”.

Poi allora come sei finito in attacco?

“Ovviamente quando sei piccolo non esiste la tattica. In teoria ci sono i ruoli, ma di fatto durante la partita vai dappertutto. Io mi facevo vedere molto spesso in avanti e segnavo veramente tantissimi gol. Addirittura a un certo punto il mister fu costretto a dirmi: «Quando arrivi davanti alla porta, per favore, torna indietro». Alla lunga, però, il passaggio ad attaccante fu inevitabile”.

Rimani alla Donatello per 5 stagioni, l’ultima delle quali (la 2009/10) è semplicemente trionfale: vincete lo Scudetto e realizzi 50 gol. È stato l’anno decisivo per il grande salto?

“Assolutamente sì. Era già da un po’ che diversi club professionistici avevano messo gli occhi su di me e mi avevano chiamato per fare dei provini, per cui sapevo che il mio trasferimento sarebbe stata solo una questione di tempo. Le prestazioni e i gol durante quella stagione aumentarono il numero delle società interessate a me e io a fine anno ebbi la possibilità di scegliere dove andare. La chiamata del Milan era allettante già di per sé; il primo impatto con dirigenti e ambiente fece il resto. La mia famiglia era (ed è tuttora) di tradizione juventina, ma quando venni chiamato da Braida (friulano come me), visitai la sala dei trofei e mi convocarono in Via Turati per la firma fu amore a prima vista. Per non parlare delle prime partite a San Siro come raccattapalle… Fu tutto incredibile”.

Nella tua prima stagione al Milan segni 25 gol e ti guadagni la convocazione in Nazionale Under 15. Con l’Italia fai talmente bene che ti chiama anche Rocca – il CT dell’Under 16 – per partecipare da sotto età ad un torneo internazionale. Ci racconti come andò?

“Venni convocato per uno stage con l’Under 16. Durante il ritiro, un giorno Rocca mi prese da parte e mi chiese se avessi il passaporto. Io non ce l’avevo perché non avevo mai fatto un viaggio per il quale fosse necessario e allora lui mi disse: «Allora sbrigati a farlo perché vorrei che tu venissi con noi a Kiev». E io obbedii. Fu un’emozione unica: giocare con l’Italia, da sotto età, in un torneo all’estero… Tra l’altro giocai sempre da titolare e feci molto bene. Fu davvero pazzesco”.

L’anno successivo, dal punto di vista dei gol segnati col Milan, ti confermi sugli stessi numeri della stagione precedente. Bisogna sottolineare però un dettaglio: dovresti giocare con gli Allievi Regionali, ma – come accaduto in Nazionale – finisci per giocare da sotto età. Parallelamente, continui la tua avventura con l’Italia e hai una media gol da urlo. Ci parli di quella stagione?

“A livello di club fu il mio primo anno sotto età, ma col tempo giocare coi più grandi divenne una costante. Peccato non essere riusciti a vincere lo Scudetto, ma mi ricordo benissimo le due reti nelle fasi finali contro Fiorentina e Catania. Per quanto riguarda la Nazionale, effettivamente riuscii a segnare tanto. Addirittura c’era stato un periodo durante il quale avevo più gol che presenze [ride]. Giocare con la maglia azzurra ti dà emozioni che non hanno prezzo. Io mi ricordo che ogni volta aspettavo la convocazione come se fosse la chiamata della vita. Ti racconto questo aneddoto. Il giorno in cui doveva uscire la lista dei 23 per il Mondiale Under 17 ero in trasferta ad Amsterdam con il Milan (dovevamo infatti giocare la gara di Youth League contro l’Ajax). Io sapevo che i nomi sarebbero stati diramati proprio durante la partita e mi ricordo perfettamente che mentre giocavo avevo la testa alle convocazioni. Appena finì il match telefonai immediatamente a mia madre per sapere se fosse arrivata la chiamata della Nazionale e quando mi disse di sì ero al settimo cielo. Io l’Italia l’ho sempre vissuta così. Quel Mondiale tra l’altro me lo sono anche tatuato”.

Cioè?

“Quella convocazione arrivò dopo una grandissima delusione. Pochi mesi prima, infatti, c’erano stati gli Europei: io partecipai alle qualificazioni, venni inserito nei preconvocati, andai a Coverciano, ma poi rimasi fuori dalla lista finale. Ovviamente ci rimasi malissimo, però trasformai quella delusione in uno stimolo: dovevo dimostrare a tutti che meritavo la maglia della Nazionale. Così, quando venni convocato per i Mondiali di Dubai, decisi di tatuarmi la parola «Credici» in arabo”.   

Il Mondiale si gioca ad ottobre. Tornato in Italia, vieni subito aggregato alla Primavera e – tanto per cambiare – giochi da sotto età. Pur non essendo uno dei titolari inamovibili, riesci sempre a ritagliarti il tuo spazio, tant’è che salti solo due gare. E poi segni la rete decisiva nella finale del Torneo di Viareggio. Che ricordi conservi di quel 2013/14?

“È stato un anno incredibile. E a renderlo tale basterebbe anche solo il gol in finale [ride]. Quel Viareggio, infatti, lo sentimmo tantissimo per diverse ragioni. L’importanza e il livello tecnico che all’epoca aveva la Primavera, il fatto che in panchina ci fosse Inzaghi, la lunga astinenza del Milan dall’alzare un trofeo (sia a livello giovanile che, in parte, di prima squadra)… Insomma, vedevamo davvero la partita contro l’Anderlecht come una finale di Champions. Io segnai la rete del vantaggio nei supplementari e poi mi feci espellere perché mi levai la maglietta, ma mi dimenticai di essere ammonito. L’arbitro era Orsato. Dopo il gol venne da me quasi incredulo e mi disse: «Non avrei mai immaginato di fare una cosa del genere in carriera». Ingenuità a parte, quella rete è forse l’emozione più grande della mia carriera”.

Pensi ci sia tanta differenza tra la Primavera dei tuoi anni e quella di adesso?

“Secondo me sì. Me ne accorgo io da spettatore e me lo dicono tanti ragazzi che ci giocano. Rispetto alla Primavera di una volta, quella di adesso è proprio un altro sport. Per come era sentita dai calciatori e dalle società, per il livello tecnico, per il seguito che aveva… E negli anni in cui la feci io, secondo me, cominciava già a sentirsi la differenza rispetto alle stagioni precedenti. Io ad esempio ero un fan di Simone Verdi e lo andavo spesso a veder giocare in Primavera. I derby tra il Milan di Verdi e l’Inter di Dell’Agnello erano devastanti: sembrava di vedere un derby di Serie A”.

Alla luce di quello che hai detto riguardo alla Primavera di oggi e soprattutto considerando il fatto che hai appena affrontato la Juventus Under 23, pensi che le seconde squadre possano rivelarsi un’ottima soluzione per consentire ai giovani di arrivare più pronti al calcio dei grandi? 

“Assolutamente sì: le seconde squadre potrebbero aiutare parecchio e le società (soprattutto le big che ne hanno la possibilità) dovrebbero approfittarne. I giovani della Juventus sono gli unici che in questo momento hanno modo di prepararsi al calcio dei grandi perché ci si ritrovano già catapultati. La differenza tra Primavera e Serie C era considerevole già ai miei tempi, figurati oggi. In C trovi davvero tanti giocatori – sia tra gli avversari che tra i tuoi compagni – che se non giochi con la determinazione e la testa giusta ti ribaltano. È vero che adesso hanno introdotto le categorie anche in Primavera, per cui ci sono promozioni e retrocessioni, ma comunque non è lo stesso. In Serie C salvarsi significa spesso conquistarsi un posto in squadra anche per l’anno successivo, portare a casa lo stipendio e continuare a vivere di calcio. Ti rendi conto della differenza?”.

Il 2014/15 è stato il tuo ultimo anno a livello giovanile: giochi in Primavera con i tuoi pari età e non perdi il vizio del gol…

“In realtà quella stagione per me non cominciò benissimo perché venni frenato da qualche infortunio, però poi si rivelò un anno molto positivo. Appena rientrai ritrovai subito il feeling con il gol e vincemmo anche un torneo importante a Dubai. In estate il Milan mi propose di restare, ma io avevo voglia di cimentarmi subito nel calcio dei grandi e soprattutto non volevo correre il rischio di essere il classico giovane aggregato alla prima squadra che finisce per fare il fuori quota in Primavera. Forse a posteriori ci sarebbe da mangiarsi un po’ le mani, visto che altri miei compagni hanno preso la decisione opposta e sono rimasti nel giro… Però alla fine non mi pento”. 

I tuoi anni al Milan sono scanditi dalle presenze sull’almanacco de La Giovane Italia. Dal 2011 al 2016 ne accumuli 5 consecutive. Ti ricordi quando uscì la prima edizione?

“La prima volta penso di averne comprati un sacco. Uno per me e la mia famiglia, altri per i nonni e i parenti… Fu ovviamente un’emozione fantastica, ma forse a quell’età non te ne rendi conto al 100%. Non so come spiegare… Essendo giovane, alcune cose le affronti con molta più spensieratezza; ti fanno piacere, ma non ci rifletti molto. Ti faccio questo esempio: quando mi allenavo a Milanello, io vedevo passare Torres, Robinho, Ibrahimovic, ma non è che realizzassi veramente la fortuna che avevo di condividere con loro società e centro di allenamento. A ripensarci oggi mi dico: «Ma ti rendi conto delle esperienze che hai vissuto?». L’almanacco è lo stesso: da ragazzo lo vedevo come una cosa carina e faceva molto piacere esserci, ma lo prendevo un po’ alla leggera. Oggi ne capisco veramente l’importanza”.

Nel corso delle varie edizioni c’è qualcosa che ti ha fatto particolarmente piacere leggere?

“Le parole di Stefano Nava, che ricordo sempre con grande felicità. Mi spiace aver perso un po’ i contatti con lui… È stata una persona che mi ha aiutato moltissimo. Se non ricordo male, mi paragonò a Marco Simone. Io non lo conoscevo perché ero troppo giovane, ma se un mister del calibro di Nava ti paragona a qualcuno, come minimo vai ad informarti. Andai quindi a guardarmi diversi video e devo dire che un po’ ci assomigliavamo. Poi mi ricordo le parole di Brocchi, un altro grande allenatore che ha vissuto di calcio e che è arrivato al massimo livello. Non penso ci sia cosa più gratificante di un apprezzamento da parte loro”.

A proposito di Nava, è vero che ti chiamava “Smith”? 

“[Ride] È vero. Mi chiamava così perché in inglese significa “fabbro”. Io non è che commettessi dei fallacci, ma ero grintoso, davo l’anima e facevo il lavoro sporco. Ecco il motivo del soprannome”.

Nickname a parte, mi ha colpito molto il primo “Dicono di lui” di Nava: «Senza dubbio ruba l'occhio per fisico e doti tecniche, ma quello che mi piace sottolineare di lui è una qualità che reputo fondamentale per chiunque voglia fare l'atleta di alto livello: il cuore. E Michael ne ha in abbondanza».

“Mamma mia, non me lo ricordavo. Mi ha fatto venire la pelle d’oca. Io credo che in campo un ragazzo possa essere più o meno bravo, ma quello che non può mai mancare – e che ha sempre rappresentato il mio marchio di fabbrica – è il cuore; se metti il cuore in quello che fai, nessuno ti potrà dire nulla, a prescindere dalle tue prestazioni. Non tutti nascono Messi e non tutti diventano Cristiano Ronaldo, ma ci sono comunque tantissimi giocatori che sulla grinta e il cuore ci hanno costruito una carriera. Tra l’altro queste sono due caratteristiche proprie non solo di me, ma un po’ di tutti i friulani, che spesso dimostrano un senso di appartenenza speciale nei confronti della propria terra e del proprio Paese, dando l’anima ogni volta che vengono chiamati in causa. Ecco perché quando uno mi dice «Mi piaci perché in campo dai tutto» mi sento più orgoglioso di quando uno mi dice «Sei fortissimo». Il riconoscimento del mio impegno è il miglior complimento possibile”.

Dalle giovanili del Milan passi così al Bassano, in Serie C. Rimani in Veneto 3 stagioni e accumuli quasi 100 presenze. Niente male come prima esperienza nel calcio professionistico.

“Scelsi Bassano per diversi motivi. La società era solida e organizzata, il presidente Renzo Rosso era una persona seria e poi c’era la possibilità che salissimo d’ufficio in Serie B. Quell’anno, infatti, ballava un posto in cadetteria e il Bassano aveva perso la finale playoff di Serie C contro il Como, per cui sarebbe stata la prima della lista in caso di ripescaggio. Io mi ero detto: «Proviamoci. Se mi va bene, mi ritrovo in B; se mi va male, comunque sono in una società di livello nella quale posso fare esperienza». Alla fine il Bassano rimase in Serie C, ma devo dire che in quelle tre stagioni mi trovai benissimo. Ovviamente anche in questo caso vale lo stesso discorso di prima: a posteriori è facile parlare. Se avessi avuto la possibilità di cimentarmi subito con la Serie B, la mia carriera avrebbe forse preso una strada diversa. È vero che dalla Primavera sarebbe stato un bel salto, però vedo che oggi tanti ragazzi lo fanno e anche a me sarebbe piaciuto provarci. Sai, probabilmente non giochi tanto, però allenarti con calciatori di quel livello e fare spezzoni di partita in quella categoria ti fa crescere. Io sono arrivato in Serie B un po’ tardi e questo rimane un rammarico, ma quando ho avuto l’opportunità di giocarci me la sono potuta gustare al 100% proprio perché avevo la consapevolezza e la maturità giuste. La vera sfortuna è stata il fallimento del Chievo, che è arrivato probabilmente nel momento migliore della mia carriera e che mi ha obbligato a ricostruire tutto quasi da zero. Però fa niente, ognuno ha il suo percorso e le altre sono tutte ipotesi. Io credo che solo una parte della nostra vita dipenda dalle nostre scelte: il resto lo fa tutto il destino”.

E il destino ti ha portato alla Virtus Verona. Dopo un inizio stentato (0 vittorie nelle prime 14 gare), nelle ultime 7 partite avete raccolto 5 vittorie e 1 pareggio. Come stai affrontando questa sfida e che obiettivo ti sei posto?

“Guarda, io nella mia carriera da professionista ho avuto la fortuna di giocare sempre in squadre con un organico molto forte e degli obiettivi importanti. Ti basti sapere che a parte l’annata col Pisa, in ogni stagione ho giocato i playoff. E questo aiuta molto perché ti spinge ad allenarti e a giocare con una mentalità vincente. Alla Virtus Verona l’obiettivo è diverso, ma la sostanza non cambia. Lottare per salvarsi, infatti, non è meno importante di un posto nei playoff. Anzi: per certi versi credo sia addirittura più importante. Avere una retrocessione sul proprio curriculum è pesante sia per i giocatori che per la società, quindi la vedo come una sfida molto stimolante. E i risultati raccolti dalla squadra non hanno fatto altro che caricarmi ulteriormente, perché ho vissuto sulla mia pelle le difficoltà iniziali, il lavoro quotidiano per migliorare e il modo in cui – per ora – ne siamo usciti. Per quanto riguarda la mia carriera e il mio carattere, inoltre, credo che questo sia un banco di prova importante. È facile dare il meglio di sé quando tutto gira alla perfezione e il club punta in alto: altro discorso è riuscire a dare il meglio di sé nelle difficoltà o quando si lotta per altri traguardi. Inoltre, dopo le ultime esperienze (partite bene, ma finite malino) ero in cerca di riscatto. Avevo voglia di rimettermi in gioco e avevo bisogno di una nuova sfida che mi consentisse di ripartire. Quando mi si è presentata questa occasione, non ho esitato a prenderla di petto, rimboccarmi le maniche e gettarmi nella mischia. Voglio dare il massimo e contribuire al traguardo che ci siamo prefissati. Se lo merita la società, se lo meritano presidente, direttore sportivo e allenatore (che in realtà sono la stessa persona: Luigi Fresco), se lo merita il gruppo, composto da giovani umili e determinati. E poi voglio riprendermi la Serie B. Ho visto che ci posso giocare, l’ho dimostrato e voglio tornarci. Ci sarebbe anche lo step successivo, che è rappresentato dalla Serie A (sfiorata nell’anno del Chievo), e il sogno finale, che è il Milan. So che non è facile e che prima ci sono altri passi da compiere, ma se non mi ponessi degli obiettivi e se non avessi dei sogni, di certo avrei già smesso”.

È probabile che l’ultima parola poi spetterà al destino, come sostiene Michael. Di sicuro, però, il carattere di un friulano e la grinta di un fabbro saranno di aiuto per tagliare tutti i traguardi. Un passo alla volta, una categoria dopo l’altra.